Il Corpo Umano

È un miracolo una maledizione

Amaris Tyynismaa ha soltanto 14 anni,

ma lo sa meglio di chiunque altro

Duncan Murrell

Amaris Tyynismaa: Il Corpo Umano è un Miracolo, il Corpo Umano è una Maledizione

Amaris Tyynismaa

Il sentiero era fangoso nei tratti più bassi, ma il cielo era sereno e il clima di quel mese di Novembre consentiva di correre velocemente. Era esattamente quello che stava facendo Jordan Van Druff. Il muscoloso studente di ottavo grado (corrispondente alla terza media italiana, ndT) aveva conquistato un grande vantaggio nei confronti dei migliori corridori di 13 e 14 anni del Sud. Scese con cautela l'ultima collina prevista nella gara da 5 chilometri, facendosi strada tra le rocce e le radici finché raggiunse la pianura e prese la strada del ritorno lungo una sfilata di ammiratori urlanti e allenatori. Aveva il controllo assoluto, eppure appariva impaurito.

Dietro di lui, di volata giù per il fianco della collina — come se di sassi o radici a ostacolarle il passo non ve ne fossero — balenò una silhouette dai lunghi capelli biondi scarmigliati. Lei accelerò, tenendo gli occhi fissi sulla schiena di Jordan, come se si trattasse della sua cena.

“Quella è una ragazza. Che ragazza”, esultò uno degli allenatori. La gente premeva contro le transenne per cercare d’intravederla.

Lei si chiama Amaris Tyynismaa. All’epoca aveva tredici anni, e il suo agile corpo era vestito di un rosa e arancione brillante. A ogni passo guadagnava una zolla di terreno dopo l’altra, e la sua falcata sembrava protendersi e farsi più disinvolta man mano che accelerava. La cosa più strana di tutte, però, era che intanto lei sorrideva, e questo nonostante il fatto che il fondo sia, innanzitutto, una prova di resistenza all’agonia. Tanti dei ragazzi che superava, dopo, facevano il tifo per incoraggiarla.

Se il percorso di gara fosse stato appena duecento metri più lungo, avrebbe perfino potuto arrivare prima. Quando alla fine tagliò il traguardo, dodici secondi dietro Jordan, e abbondantemente prima di tutti gli altri, lei posò il suo sguardo sull’orologio: aveva coperto 3,1 miglia in 16:57 secondi. Ossia uno dei risultati migliori dell’anno scorso fra le liceali del Paese — il fatto però è che Amaris andava ancora alle medie. Non solo: lei aveva iniziato a fare agonismo giusto l’anno prima.

All’epoca in cui si svolgeva questa corsa — la Foot Locker South Regional, che si era tenuta l’autunno scorso a Charlotte — Amaris aveva già portato a casa il primo posto a un'altra gara di corsa campestre dei licei dell’Alabama, con 80 secondi di vantaggio, cioè l’equivalente di una vittoria conquistata segnando cento punti in più a pallacanestro. A febbraio poi, dopo aver infranto qualche altro record per lo stato dell’Alabama, era stata anche nominata All-American nel fondo indoor, ed era l’unica del suo gruppo a frequentare ancora le scuole medie.

I suoi allenatori sono convinti che lei abbia il talento necessario a diventare una campionessa NCAA (National Collegiate Athletic Association, ndt), magari perfino un’atleta di livello olimpionico. Lo dicono con una certa prudenza, perché sono perfettamente consapevoli del fatto che parlare in questi termini di un corridore tanto giovane è una cosa piuttosto rischiosa. Le caviglie e gli stinchi si possono logorare, la propria determinazione può dissiparsi, il proprio corpo può trasformarsi. Son queste le sfide che ogni corridore dalle grandi promesse si trova ad affrontare. Amaris, dal canto suo, di sfide da vincere ne ha ben altre.

Il giorno prima della corsa a Charlotte, suo padre, Mike — un pilota dell’aeronautica militare — l’aveva sollevata come se fosse ancora una bambina, e poi l’aveva portata in braccio su per diciassette rampe di scale, per il semplice fatto che si era sentita terrorizzata all’idea di stare chiusa dentro l’ascensore dell’albergo. Quando si trova all’interno di qualsiasi spazio chiuso, infatti, la paura e l’ansia la fanno sentire paralizzata: il suo volto diventa paonazzo, il suo cuore comincia a battere all’impazzata, e tutto il suo corpo si surriscalda. La prima volta che si era ritrovata davanti l’ascensore dell’albergo aveva deciso di prendere le scale, e così si era sfiancata. La seconda volta invece il padre non aveva voluto lasciare che si spossasse giusto prima della corsa. Così, salendo i gradini, lui la teneva stretta a sé, e lei ci scherzava su, cercando di rallentare il battito del proprio cuore.

Un paio di mesi più tardi, è la madre di Amaris, Kristen, a spiegarci come sia possibile che una persona dotata di un talento quasi innaturale possa essere anche così fragile. Kristen è molto attenta, e protettiva, nei confronti dei figli, e ha avuto motivo di riflettere sul conflitto in atto fra il corpo e il cervello di Amaris. “Quando corre”, spiega Kristen, “Credo che lei stia scappando dal suo disturbo”.

Quando Amaris aveva appena tre anni, a volte i suoi genitori la ritrovavano distesa per terra a faccia in su, completamente irrigidita, con tutti i muscoli del suo corpo contemporaneamente contratti. Gli occhi, rimasti spalancati, fissavano un qualche punto di lato; il volto paonazzo, perché stava trattenendo il respiro. Poi, dopo qualche minuto, si rialzava da terra e continuava a giocare come se niente fosse accaduto.

Altre volte si dimostrava eccessivamente sensibile al tatto, non appena la sua pelle entrava in contatto con certi tessuti e certe trame. Poteva accadere che prima di uscire di casa indossasse un cappottino, e che poi d’un tratto piombasse per terra, scalciando, in lacrime. In seguito ci furono anni di consulti, test e terapie di tanti tipi diversi. Ma ogni qual volta i medici sembravano avvicinarsi a offrire una qualche risposta, gli impegni inderogabili della vita militare facevano sì che la famiglia dovesse trasferirsi, e così tutto il processo doveva ricominciare ogni volta da capo. Alla fine, trascorso un intero anno sotto attenta osservazione, un medico della Walter Reed le diagnosticò la sindrome di Tourette, altrimenti detta TS.

Nonostante la diffusa rappresentazione “pop” della TS come di quella malattia che ti porta a dire le parolacce, Amaris — al pari del novanta per cento delle persone che soffrono della Tourette — non impreca né comincia a urlare incontrollabilmente cose offensive. (Omioddio è il livello massimo del suo ‘imprecare’). Invece ciò che avverte è l’impeto irresistibile di far compiere alcuni movimenti molto specifici a determinate parti del proprio corpo, e a volte quello di produrre con la propria gola dei piccoli suoni — li chiamano “tic”, ma la definizione sembra fin troppo riduttiva. Fino a qualche anno fa i tic potevano risultare talmente soverchianti da riuscire a sbalzarla via dal proprio banco. A scuola doveva impegnare così tante delle sue energie per contrastarli, che poi non riusciva a concentrarsi; e si rendeva perfettamente conto di come gli altri ragazzini pensassero che fosse stupida. “È un po’ come avere un piccolo esserino malvagio seduto sulla tua spalla, e loro ti dicono di fare delle cose, e tu devi provare a resistere”, racconta.

Ci sono ragazzi che fanno da giovani ambasciatori per la Tourette Syndrome Association, e altri che scrivono per la newsletter, That Darn Tic (lett. ‘quel dannato tic’, ndt). Ma Amaris non è il tipo. Lei i tic li odia, e soprattutto odia l’idea che la gente ritenga che lei dovrebbe semplicemente farsene una ragione. Per come la vede lei, sono loro che l’hanno aggredita.

Per le persone affette dalla TS i disturbi del sonno sono comuni, e quelli di cui soffriva lei — gli incubi notturni cominciarono quando ancora andava all’asilo, e proseguirono per molti anni — erano implacabili. Ogni notte, quarantacinque minuti dopo essersi addormentata, i suoi genitori la sentivano balzare in piedi via dal letto. A quel punto cominciava a correre per la casa, su e giù per le scale, urlando. Vedeva aerei in volo, in picchiata, magari schiantarsi. A volte lei si trovava a bordo di questi aerei, e altre invece si avvitavano nell’aria sopra di lei. Si sentiva piena di terrore e completamente sola. E avvertiva un dolore fisico, reale, un inestinguibile bruciore al pollice. Poi, dopo un po’, si calmava, tornava a letto, e il mattino dopo faceva fatica a rammentare i dettagli di ciò che le era accaduto.

“Vedere tua figlia soffrire così tanto è molto triste”, constata Kristen, “specialmente quando la cosa sembra non rispecchiare affatto il carattere della persona che è, cioè una ragazza stupefacente e piena di fiducia in sé stessa. Poi però c’è quest’altra parte di lei”. Ed era proprio quella parte a spingerla a nascondersi. In quarta elementare Amaris cominciò a portarsi dietro un sasso da accarezzare e un sacchetto pieno di erbe profumose da stringere fra le dita non appena avvertiva che i tic si stavano riaffacciando. Un poco l’aiutava. Come per altri ragazzini affetti dalla Tourette, anche lei aveva sviluppato delle tecniche segrete per sforzarsi di apparire come tutti gli altri.

“Sentivo d’un tratto l’impulso di allargare le gambe, come se stessi facendo dello stretching”, racconta Amaris, “e ricordo quella volta in cui stavo camminando in fila e d’un tratto ne sentii l’urgenza, non potevo farne a meno, perciò finsi di mettermi a fare stretching, poi feci qualche jumping jack, e beh. Nessuno me lo fece notare”.

Non vedeva l’ora di ritrovarsi da sola in corridoio, o in quei momenti durante una lezione in cui nessuno faceva caso a lei. Soltanto in quel momento poteva protendere il bacino verso l’esterno, più e più volte, o aprire completamente la bocca, fin quanto ci riusciva, o torcere il proprio collo di lato con tanta forza da farle sentire allo stesso tempo un senso di dolore e di sollievo. La maggior parte delle volte, però, doveva cercare di comportarsi bene e rimandare a più tardi i propri tic. Quindi, alla fine della giornata di scuola, era a pezzi.

“Quando poi salivo a bordo dell’automobile di mamma mi sentivo talmente esausta e turbata — turbata da me stessa, immagino — che a quel punto mi mettevo semplicemente a strillare”, rammenta Amaris. “Mi lasciavo andare a uno scatto d’ira. Davo sfogo a tutti i miei tic. Mi mettevo a piangere. Omioddio, era tremendo. Ricordo che mi sentivo entusiasta di rivedere la mamma, ma poi le facevo Mammaaaa, e allora partivo”.

“Ecco la Mamma, urrà! Grrrrr!”, fa Mike. Nella famiglia Tyynismaa quando si rievocano i dettagli più tremendi di questi aneddoti, hanno l’abitudine di mettersi a ridere. Lo fanno tutti.

“Ma io non volevo farle del male. È solo che mi sentivo tanto sconvolta. Le volevo bene, ma sentivo l’assoluto bisogno di lasciarmi andare, e sfortunatamente… mi dispiace, Mamma”.

“Ti voglio bene”, le fa Kristen.

“Anch’io ti voglio bene, Mamma”.

Amaris ha dovuto aspettare fino alla terza elementare perché qualcosa iniziasse a cambiare: fu quando la sua famiglia si trasferì in Inghilterra per andare a lavorare alla base della Royal Air Force di Lakenheath. Alla Feltwell Elementary School tutto era cominciato come sempre — lei se ne restava sempre in silenzio, faceva fatica a parlare in modo chiaro, e per quanto le era possibile tentava di celare i propri tic.

Poi un giorno Kristen le suggerì di entrare nella squadra di calcio del paese. Fu allora che Amaris comprese quanto le piacesse quel gioco, e quanto lei fosse brava, ma — cosa ancor più importante — scoprì un fatto determinante riguardo alla propria sindrome: per un certo periodo di tempo poteva essere in grado di dimenticarsene. Furono i suoi genitori a notare che i tic partivano quando giocava in difesa, o comunque quando — in un determinato momento — non aveva azioni da compiere. Ma quando l’allenatore la collocava al centrocampo, una posizione che t’impone di andare sempre di corsa, di tic non ne manifestava quasi mai. Restare in movimento le permetteva di aggirare gli impulsi più disordinati del proprio corpo.

Quella sensazione di autocontrollo le risultava talmente poco familiare, talmente rinvigorente, che ogni qual volta si recava agli allenamenti di calcio, dopo non voleva che finissero mai. “In un certo senso mi rendevo conto che quando poi avevo finito, magari verso la sera tardi, l’impulso del tic sarebbe riapparso. Ricordo che facevo sempre: ‘Coach, coach, per favore non è che potremmo continuare per altri cinque minuti?”, racconta lei. “Su quel campo avevo assaggiato il sapore della libertà, era come se me ne fossi liberata”.

Alcuni sportivi che soffrono della Sindrome di Tourette attribuiscono poteri quasi magici alla propria condizione. Ad esempio Tim Howard, portiere della formazione della squadra di calcio degli Stati Uniti che l’anno scorso ha partecipato alla Coppa del Mondo, sostiene che la Tourette gli abbia donato delle visioni e dei riflessi che gli altri giocatori semplicemente non hanno. Una volta il famoso Dr. Oliver Sacks aveva scritto di un giocatore di ping-pong le cui anormali doti di velocità e di reazione, con palline imprendibili, riteneva fossero connesse alla TS. Uno dei motivi sta nel fatto che le persone che soffrono della Tourette tendono ad avere anche un disturbo ossessivo-compulsivo (Amaris non fa eccezione). Ragion per cui hanno bisogno di comportamenti ripetitivi — indipendentemente dal fatto che si tratti d’impedire che una palla colpisca una rete, o di coprire distanze improbabilmente lunghe — fino al momento in cui, a un certo punto, riescono a farlo bene. “Non sto dicendo che sia una fortuna avercela”, chiariva il Dr. Sacks a un reporter l’anno scorso, “ma se una persona ha la Tourette, obiettivamente ci sono dei vantaggi”. Una nuova ricerca dell’Università di Nottingham dimostra che i cervelli dei pazienti con la TS sono fisicamente diversi da tutti gli altri, sono meglio in grado di controllare il proprio corpo, e vengono trasformati da tutti quegli anni trascorsi a vivere e ad agire incontrando una resistenza molto più intensa della norma.

I neurologi della Tourette Syndrome Association non sono altrettanto inclini ad accogliere l’idea di un nesso di causa-effetto fra la TS e delle doti atletiche superiori. Sono più propensi a sostenere che le persone affette dalla Tourette vedano spesso attenuarsi i propri sintomi quando praticano dello sport, o comunque quando s’impegnano in qualcosa che permetta loro di concentrare la propria attenzione distogliendola dall’impulso del tic.

Il calcio aveva attutito quel rumore che Amaris sentiva nella sua testa. Dopo aver cominciato a giocare, fuori dal campo i suoi tic presero a farsi sentire meno di frequente. A scuola andava meglio. Parlava di più. In realtà, parlava parecchio, come del resto fa ancora oggi. Durante la sua ultima partita in Inghilterra segnò tre gol, e gli altri ragazzini la sollevarono e la portarono in trionfo seduta sulle loro spalle. Appena qualche mese prima, per lei la cosa avrebbe rappresentato un grosso problema — troppi germi — e invece le era piaciuto da morire. Poi però la sua famiglia si trasferì in Alabama.

Con lo stress e l’ansia dovuti al trasferimento in una nuova base, in una nuova casa e in una nuova scuola senza amici, i suoi tic s’andarono intensificando. Lei se ne sentiva sfinita, più che in qualunque altro periodo della sua vita prima d’allora. Ma l’Inghilterra le aveva insegnato qualcosa. Così decise di entrare a far parte di due diverse squadre di calcio e di una squadra di nuoto.

Ben presto a Mike e Kristen cominciarono a giungere notizie di prestazioni atletiche che parevano impossibili. In particolare gli raccontarono che a scuola, in prima media, la loro figlia aveva coperto un miglio in un tempo significativamente inferiore ai sei minuti.

“Mi piace quel tipo, Isaac”, fa lei. “È forte! Non l’ho mai incontrato, ma… è parecchio alto. Seh”.

“Ero convinta che ci dovesse essere qualcosa che non andava nella pista”, ricorda Kristen. Mike dal canto suo si rifiutava di crederci. E Amaris se ne sentiva offesa. Nella sua base c’era un tracciato regolare, così un torrido giorno di quelli tipici dell’Alabama ce la portarono, e la lasciarono correre. Il primo giro che portò a termine non fu niente male e ne furono colpiti, ma non se ne sentivano ancora del tutto convinti. “Non ero sicuro che potesse tenere quel ritmo”, rammenta Mike. Ma poi lei accelerò, e accelerò, e alla fine tagliò il traguardo in 5:36 secondi.

"In quel momento capimmo che era davvero brava", dice Mike.

Il tempismo non poteva essere migliore. Amaris cominciava a sentire che il calcio era troppo per lei. Nella sua ultima squadra, era di gran lunga la più giovane e andava così nel panico per quello che le altre ragazze potevano dire sul suo gioco che aveva perso il piacere e il beneficio dell'attività sportiva. Nuotare era una attività troppo solitaria; sentirsi parte di una squadra è più difficile quando passi la maggior parte del tempo sott'acqua.

Correre, invece, la faceva sentire bene. "È la mia improvvisazione", amava dire. A differenza di tutti noi - con le gambe arcuate, a piccoli passi, mordendoci le labbra - non sembra mai voler andare veloce. Devi focalizzare lo sfondo per comprendere quanta distanza sta bruciando. Sta sempre in equilibrio, ciascuna parte del suo corpo fa lo stesso tipo di lavoro a intervalli che si alternano. Sembra stare più in aria che sul terreno. Le foto di Amaris al termine delle corse sono diventate un piccolo caso divertente, senza volerlo, perché sono tutte simili: qui c'è la bambina veloce e qui tutti gli spettatori e i direttori di gara che la fissano, a bocca aperta.

È addirittura arrivata ad apprezzare la brutalità dello sport, la fatica e i polmoni in fiamme che alla fine svaniscono finché non si sente elettrica, come se galleggiasse, consapevole del dolore ma contemporaneamente superiore. Il mese scorso mi parlò di una recente, rivelatrice sessione pratica: "Era un allenamento davvero duro", disse, " e alla fine dovevamo fare due intervalli da 400 metri. Stavo correndo ed ero così felice. Non so cosa fosse, era solo molto facile. E mentre correvo stavo gridando Sono in uno stato di grazia!, non so, semplicemente non sento il dolore, sei lì e pensi a tutto quanto, è difficile spiegarlo".

Discorsi come questo deliziano e allo stesso tempo riempiono di terrore John Terino, il suo allenatore alla Montgomery Catholic. Amaris è la velocista più talentuosa che abbia mai avuto, e passa un bel po' del suo tempo a pensare al suo futuro. In autunno pensa di prendere uno dei ragazzi della squadra e farlo entrare lungo le sue corse di allenamento in punti diversi, perché nessuno di loro riesce a starle dietro dall'inizio alla fine. Mentre la prepara per un eventuale campionato nazionale il prossimo anno, sta studiando le gare celebri in cerca di una strategia.

È anche cosciente che la storia di giovani prodigi della corsa non è necessariamente a lieto fine. Vede quanto Amaris supera i propri limiti, quant'è perfezionista, e pensa: ce la farà? Cosa succederà se non ce la fa?. "La mia più grande paura, una volta che ho capito quanto è davvero brava", dice, "è stata che io non volevo essere la persona che la spezza".

Amaris pensa
di aver vinto
la sindrome di Tourette.
Ma il cervello
non
cambia
per miracolo.

Ai raduni Amaris non se ne sta mai per conto proprio. La trovi sempre in compagnia di almeno un altro membro della sua squadra. Dopo aver fatto la sua corsa indossa una maglia e continua a gravitare intorno ai compagni, all’interno del gruppo, non li molla finché non arriva il loro turno di scendere in pista. Di amici Amaris ne aveva già avuti, ovviamente, ma non si era mai sentita altrettanto coinvolta da un insieme così ampio di persone, sia ragazzi che ragazze. Lei li chiama la sua famiglia, e loro non la trattano in maniera diversa da chiunque altro.

Però lei diversa in effetti lo è. È uno dei migliori giovani corridori del Paese, il che significa che viene sempre più tenuta sotto osservazione e scrutinata. Solo pochi mesi fa ha ricevuto una lettera dall’Università del Kansas, che annovera fra i propri studenti le campionesse NCAA 2013 di atletica leggera outdoor. A scuola i ragazzini le battono il cinque nei corridoi, anche gente che lei non conosce. Ai raduni le ragazze la fissano, e nei bagni parlottano scopertamente fra loro.

A volte quello scrutinio scende sul piano personale. Il mondo dei corridori è uno dei pochi contesti in cui agli occhi degli adulti risulta accettabile discutere, e farlo molto pubblicamente e clinicamente, dei corpi dei bambini. Perciò ci sono degli estranei che si lanciano in congetture sulla lunghezza delle ossa, sulla muscolatura degli addominali e dei glutei, sulla disposizione del bacino e dei seni. Di conseguenza, alle corse e sui forum online il fisico di Amaris è diventato frequente oggetto di conversazione. All’inizio la cosa l’aveva spaventata. In una di queste bacheche un utente aveva postato il seguente commento sul suo conto: “LOL. È talmente minuta, quando poi raggiungerà la pubertà i suoi tempi non potranno che calare parecchio. l’ho visto accadere tante volte”.

In occasione di una corsa campestre, che lei aveva vinto con due minuti di vantaggio, un allenatore aveva commentato ad alta voce che la ragazza avrebbe avuto bisogno che qualcuno le portasse un sandwich. Mike mi ha confessato di non aver mai avvertito prima di allora un impulso altrettanto forte di prendere a pugni qualcuno. Lui gli aveva risposto che sua figlia era naturalmente magra, che stava attraversando uno scatto di crescita e che, anche se certamente non erano affari suoi, la Tourette costringeva Amaris a consumare un bel po’ di calorie extra.

Un livello d’attenzione di questa portata risulterebbe già sconcertante per qualunque altro adolescente. Ma numerosi studi hanno dimostrato che non appena le persone affette dalla Tourette si sentono in ansia, in uno stato di sovreccitazione, stress o solitudine — cioè proprio quel genere di emozioni che spesso accompagnano la fama e la competizione ad alti livelli — i loro tic non fanno che intensificarsi. E quei nuovi tic finiscono a loro volta per alimentare il senso di alienazione, quindi il circolo vizioso ricomincia.

La risposta di Amaris è stata quella di cercare d’integrarsi quanto le era possibile. Se c’è una cosa che lei teme più di qualsiasi altra al mondo, è quella di essere percepita come una persona strana, o diversa. Ha sviluppato il più tenue accenno di accento del Nord Alabama — niente di particolarmente nasale, appena un po’. Quando durante un’assemblea il preside della sua scuola si era limitato a dare esclusivamente notizia dei risultati che lei aveva raggiunto in atletica, trascurando quelli delle sue compagne di squadra, lei l’aveva gentilmente rimproverato. Trascorre un bel po’ di tempo su internet, seguendo video tutorial su come truccarsi, e già si nota come si stia teneramente interessando in maniera sempre più evidente ai ragazzi.

Durante un raduno, sotto il tendone della scuola cattolica di Montgomery, di fischi d’apprezzamento se ne potevano sentire parecchi, per un ragazzo che non era un loro compagno di squadra, ma che certamente dalla sua aveva il fatto che era alto, con le spalle larghe e dal piè veramente veloce. A tutela di tutte le persone coinvolte, qui di seguito lo chiameremo soltanto Isaac.

“Oh, oh, guarda Amaris! Guarda eccolo, omioddio”, esclama una delle sue compagne di squadra.

“Vaaaai Isaac!” grida Amaris.

Un’altra volta quando si è trovata a guardarlo correre lei era in compagnia del padre.

“Mi piace quel tipo, Isaac”, fa lei, sondando il papà. “È forte! Non l’ho mai incontrato, ma…”.

“Ti pare forte?”

“È parecchio alto. Seh”.

Da un punto di vista superficiale, si può dire che Amaris stia attraversando un anno bellissimo. Sono mesi che non soffre di tic evidenti, e si è convinta di aver sconfitto la sindrome di Tourette. (“Non dire che sono migliorata”, si raccomanda. “Di’ che sono completamente guarita, perché sono guarita”). Ma il cervello non cambia per miracolo. L’architettura della TS è ancora lì dov’era. Durante una delle nostre conversazioni, a un certo punto il padre aveva fatto riferimento al suo tic al collo, e allora Amaris aveva alzato la voce. “Oh non farlo, non farlo, oh no”. Mike si era immediatamente scusato. Amaris aveva abbozzato, ma il fatto è che non ha alcuna intenzione d’integrare quei ricordi nella nuova identità che sta cercando di costruirsi.

Prima che Amaris scoprisse la corsa, il controllo del proprio corpo rappresentava la sua lotta più grande. Oggi le sue peggiori difficoltà tendono ad essere di tipo interiore. Come osserva Kristen, tutto ciò che un tempo era di natura fisica, adesso è sul piano mentale.

“Il suo ultimo tic risale alla fine dell’anno scorso, ma lei si comporta come se fosse passato tanto tempo”, prosegue Kristen. “Sta attraversando un momento di regressione, e infatti si è riaffacciato l’OCD (disturbo ossessivo-compulsivo, ndt), le sta riprendendo”.

Ed è per questa ragione che ogni qual volta si ritrova in mano una nuova bottiglia d’acqua la porta all’orecchio per sentire la rottura del tappo a sigillo, non si sa mai. Continua a lavarsi le mani fino a farsi venire le rughe, anche se non lo fa più tanto quanto una volta. Dopo aver finito di leggere il romanzo “La notte” di Elie Wiesel, si era fissata sugli orrori dell’Olocausto, e dopo non ha più smesso di parlarne per settimane. A volte, nota Kristen, le cose tendono a consumarla.

Allo stato attuale delle cose una delle principali preoccupazioni sta nella prospettiva di doversi trasferire di nuovo. La famiglia ormai vive a Montgomery da quando Amaris faceva la quinta elementare, che per lei è davvero un bel po’ di tempo, e lei continua a chiedere al papà di lasciare l’esercito e andare in pensione. Non lo fa in modo impertinente, ma quasi inavvertitamente, come succede alla gente che non può fare a meno di parlare di ciò a cui non riesce a smettere di pensare. In fondo Mike è stato lontano, in guerra, per quasi un terzo della sua vita. “Ed è proprio per questo che a volte Amaris si sente tanto stanca”, dice Kristen. Il pensiero di ricominciare tutto da capo, in un nuovo luogo, in una nuova scuola, con nuove persone — “è come un detonatore”.

Quando ho chiesto ad Amaris come sia in grado di reggere la pressione, e soprattutto le aspettative crescenti alimentate dalla sua abilità nella corsa, la sua reazione è stata tipicamente solare, come il suo carattere. “I corpi di alcune persone non cambiano così tanto, quelli di altre persone sì, dipende da ciò che Dio vuole che succeda alla gente”, mi risponde. “Quindi chi lo sa? Succedono tante cose”. Neanche i suoi genitori si preoccupano della direzione che possa prendere la sua carriera nell’atletica. A preoccuparli, invece, sono tutti quegli obblighi, che già si avvertono, derivanti dall’esser diventata uno dei migliori corridori del Paese, il fatto che questi possano intensificarsi e andare fuori controllo, e che nonostante tutto ciò che lei ha potuto ottenere grazie alla corsa, l’intero processo potrebbe finire per travolgerla.

Intanto Amaris se ne sta a leggersi citazioni ispirazionali da un libro sulla felicità regalatole dalla madre, e a scuola si mette a scarabocchiare sulla gamba volti di ragazze sorridenti. Fa perfino del suo meglio per tollerare lo schifo generale che le fanno i ragazzi della sua squadra — con tutto quello sputare, scatarrare e soffiar muco, e quella volta in cui avevano raccolto del fango da terra e gliel’avevano tirato addosso, raccontandole che era sterco di vacca. “Era uscita completamente fuori di testa”, racconta Winston Wright, il figlio del suo allenatore, e ottimo corridore. “Ma era anche il segno che lei era una di noi”.

Al colpo della pistola, Amaris balzò in avanti. Era il primo raduno outdoor della stagione, e doveva correre per 1600 metri contro un gruppo di ragazze, fra le quali Kaitlin York, una senior dell’American Christian Academy dotata di una falcata poderosa e di un fisico compatto, che era anche una delle poche persone di tutto il Paese in grado di tenerle il passo. Aspettava questa corsa da quando, qualche settimana prima, non era riuscita a scendere al di sotto dei cinque minuti nei 1600 metri. La cosa l’aveva irritata.

Prima della corsa mi aveva detto che si sentiva addosso il raffreddore, e che le facevano male gli stinchi — e anche che per lei queste erano ottime notizie. La settimana prima infatti si sentiva perfettamente in salute, e perciò fondamentalmente alla deriva. “Mi ero dimenticata come si faceva a correre”, mi ha spiegato, “mi sono talmente abituata a sentire un po’ di dolore che poi quando non ce n’è, non mi sento a mio agio”.

Durante i primi due giri, Kaitlin riusciva a stare al passo di Amaris, quasi perfettamente alla pari. Nessun altro andava loro vicino, però Kaitlin sembrava sotto sforzo. I suoi pugni erano chiusi; invece le mani di Amaris erano rilassate, aperte.

All’inizio del terzo giro l’allenatore di Amaris le dice di sorridere, e lei lo fa. “Ora dammi un po’ di distanza”, le urla, e lei lo fa.

Ma prima di allontanarsi troppo, Amaris le dice: “Bel lavoro, Kaitlin”, abbastanza ad alta voce da farsi sentire. Kaitlin non le risponde.

“La cosa un po’ mi è dispiaciuta”, mi ha confessato in seguito.

“Amaris, ma tu lo sai che cosa significa sfottere, vero?”.

“Sì! Ma no! Ero solo felice per lei”.

“La gente di solito non si scambia congratulazioni durante le corse”, le dico.

“È solo che era bello poter correre con qualcuno”, mi risponde, a bassa voce, un po’ offesa.

Quell’ultimo giro era stato una meraviglia. Kaitlin era calata di nove secondi, e il resto dei corridori ben più in là, fino al momento in cui, agli occhi della maggior parte del pubblico era ormai diventato impossibile riuscire a seguire contemporaneamente Amaris e le altre. Si era ritrovata ancora una volta da sola. E dal suo volto era scomparsa ogni traccia di sforzo fisico. Lei era semplicemente andata, nel suo mondo privato. Quell’espressione, il suo coach Terino la chiama “la felicità di attraversare il pianeta con la propria forza e sotto il proprio controllo”. Quando poi ha concluso, il cronometro segnava 4:45.50.

Tagliando il traguardo, Amaris emette un verso stridulo. Non un tic, ma qualcosa di meglio, anche se suonava comunque bizzarro: “Evvai!”. Solo un piccolo sfogo, gettando la testa all’indietro. Era convinta di averlo urlato, ma da fuori non era sembrato così.

A bordo del minivan, di ritorno a casa, Amaris si era soffermata a spiegare a Mike e a me quanto non sopporti l’idea di andare a fare shopping per qualsiasi altra cosa che non sia l’abbigliamento sportivo. Ma quando poi siamo passati davanti a un centro commerciale, ci ha chiesto se potesse fermarsi a dare un’occhiata.

Una volta entrata, va subito a infilarsi nel reparto dell’abbigliamento da donna. All’inizio frettolosamente. Sfiorava gli short, gli abiti, i top e le gonne, per poi lasciarli andare e passare oltre. “Non c’è niente che io odii più dello shopping” mi confessa Mike, anche se guardando la figlia aggirarsi fra gli scaffali, sembrava felice. Poi lei comincia a rallentare, e a prendere in considerazione i vestiti che ha davanti, tutti capi evidentemente concepiti per donne più avanti con l’età. Si sofferma su un top fatto a maglia di color verde foresta, con una coda fin troppo lunga, ricoperto da buchi delle dimensioni di un nickelino, disposti a distanza regolare l’uno dall’altro.

“Che strano che è, questo, mi piace. Ma sotto poi dici che ci dovrei mettere un tank top o una maglietta?”.

“Sì, sarebbe il caso”, le dice il papà. “Decisamente”.

“OK”, gli fa, ridendo.

Allora Mike le indica una T-shirt con un teschio baffuto e ingioiellato.

“E di questa che ne pensi?”, le chiede.

“No”, gli risponde. “Bleah”. Pollice verso anche per un vestito à la Dorothy del mago di Oz. Così come per numerosi altri parei, alcune gonne troppe corte, e una serie di camicette più adatte a un’agente immobiliare.

Ma poi ogni volta ritornava al top coi buchi. “Quello mi piace davvero, Papà. Non pensi che sia strano?”.

“Sì”.

Lo teneva in mano, contemplandolo. Sembrava una performance teatrale, pareva più incuriosita dal provarsi addosso l’idea di qualcosa, che un vero e proprio capo di vestiario. Se lo premeva addosso.

“È strano forte”, dice alla fine. “È così me”.

Credits

Duncan Murrell collabora con Harper's Magazine, The Oxford Magazine e *The Normal School". Vive a Pittsboro, North Carolina
Maciek Jasik è un fotografo che vive a Brooklyn. Le sue immagini sono state pubblicate anche su New York, Adweek, Variety, Bullett e Wired.
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